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Qualunque dio tu sia

Qualunque dio tu sia

di vanni spagnoli (Autore)


C'è una profonda tristezza in queste liriche raccolte sotto il titolo "Qualunque dio tu sia", una tristezza seria, riflessiva, nata da un assiduo meditare, che mai conduce alla disperazione e s'illumina invece al fugace apparire della bellezza e dell'amore, in un palpito improvviso della vita. Del resto, cos'è mai la poesia, sembra suggerire il poeta, se non un dono del sentire, nell'arte condiviso…

Antonio Bianchessi

Autore

vanni spagnoli
vanni spagnoli
9 pubblicazioni Visita la pagina Autore

Informazioni editoriali

Data di uscita
2021
Editore
Youcanprint
Pagine
100
ISBN
ISBN
9791220340175

Recensioni clienti

5 su 5 stelle sulla base di 1 Recensioni
Da Antonio Bianchessi il 16 gen 2023
Pubblicazione cartacea

C’è una profonda tristezza in queste liriche raccolte sotto il titolo “Qualunque dio tu sia”, una tristezza seria, riflessiva, nata da un assiduo meditare, che mai conduce alla disperazione e s’illumina invece al fugace apparire della bellezza e dell’amore, in un palpito improvviso della vita. Del resto, cos’è mai la poesia, sembra suggerire il poeta, se non un dono del sentire, nell’arte condiviso… Così, pur nella coscienza del dolore e nel rimpianto di una giovinezza “troppo breve”, tanto da essere paragonata a un “soffio”, quanta perfezione il tempo custodisce facendosi memoria… E’ un tema classico, spogliato d’ogni retorica, che ritorna nella coscienza disillusa dell’oggi, “quando si fa strada “il tempo/dei capelli bianchi”. Così fin da subito, ad apertura del libro, in poche semplicissime espressioni si annuncia il tema dell’intero canto. E l’immagine si lega così strettamente a quella della “prima neve” che il volto dell’uomo, come il paesaggio che gli fa da sfondo, si addolcisce e rischiara. L’accostamento tra le stagioni e la vita rimanda sin dal primo istante alla poetica dell’autore e alla magia dei silenzi in cui come fiocchi di neve cadono le sue parole. Strana cosa il tempo, realtà contraddittoria che precipita nel nulla e sconfina nell’eterno. Più che la consapevolezza la percezione di questa duplicità percorre l’intero componimento e gli dà l’aspetto unitario di un poema dalla brevità essenziale, come si addice al tempo annunciato da quei primi capelli bianchi. E tra gli ultimi versi, dopo avere ricordato che “al limitar del tutto /vincono sempre i sogni”, il poeta si abbandona alla sofferta consapevolezza dell’oggi: dopo “appassir di luna” e maree che “s’alternano”: “all’assedio del giorno/già sfumano i sogni”. E non è difficile cogliere in queste immagini la Bretagna che lo ospita, il suo “oggi”, ma soprattutto quell’alternarsi di maree in cui si avvicendano i nostri sogni: metafora perfetta di un’intima vibrazione, simile e opposta a quella della neve che evocava immobilità e silenzio. Seguo Vanni ormai da molti anni e posso dire che il tema dell’incanto e la magia del silenzio hanno sempre attraversato la sua poetica. Persino quando l’ispirazione lo portava a rivivere sui fragori dell’onda antichi temi universali, l’ assoluto del tempo e la nota così alta del silenzio s’imponevano sulla piana di Troia come gli araldi del destino. In questo attaccamento alle radici della nostra cultura, ho sempre visto qualcosa di foscoliano, ma senza l’enfasi che accompagnava il classicismo del poeta. E a conferma della mia impressione, trovo in questi ultimi lavori, dedicati a un dio qualunque, il vocabolo “corteggiare” che si ripete più volte, quasi ad annunciare un’altra immagine che avanza: la sera della vita. Ma tra i due poeti, entrambi figli del greco mare, vuoi per nascita o per elezione, i procedimenti stilistici non potrebbero essere più diversi. Il poeta del dio qualunque non punta a racchiudere immagini e senso, come accade al Foscolo, in una sola perfetta composizione. Per la sensibilità del nostro tempo, e per Vanni, il mare è fatto di onde, con voci e intensità diverse. L’unità si frantuma nei versi e si ricompone nell’unità della ispirazione, variamente mossa, come accade alle onde dello stesso mare, facendo dell’intero poema una sola diffusa poesia. Il mare…metafora madre della poesia, sembra nei versi di Vanni inseguire un limite fuggente tra il tempo e l’eterno, che a volte si dà lungo un orizzonte impreciso e a volte si dona in quell’orlo di schiuma che bagna la riva. Tuttavia, niente di più lontano dall’idillio in questo poeta, così attento alla complessità, alieno da ogni retorica, tanto da prediligere un linguaggio piano, che ha sempre il sapore della verità. Si pensi a questa semplice asserzione: “ogni respiro è vita/ ed una soltanto/ a tutti/ è toccata in sorte”. O a quest’altra, in cui è l’immagine a veicolare il senso: “Ci sono solitudini/ fatte d’attesa/ di finestrini/ a correre nel buio/ su treni/ che rischiano la notte”. O a questa breve, intensa narrazione, che celebra un addio: “Si è alzato il vento/ per un attimo/ quando sei uscito dalla chiesa/ ed è stato come raccogliere/ per l’ultima volta/ il tuo respiro”. E torniamo così all’amarezza profonda di cui si diceva all’inizio e che dà unità tonale all’intero componimento. E’ una sorta di musica non scritta che di verso in verso accompagna la lettura, come una stagione della vita che indugia tra i colori dell’autunno e il bianco dell’inverno. Accanto agli aspetti esistenziali, quasi a correggere gli errori di prospettiva, emergono i momenti tutt’altro che rari che caratterizzano l’uomo, non solo il poeta: l’amore per la donna, sempre colto nell’intensità di un particolare: “E come rivedo ancora/ i tuoi vestiti a fiori/ quei tuoi sandali bassi/ per camminar veloce”. Quanta bellezza e agilità in un semplice tocco… Eppure il ricordo ha proprio simili tratti e la figura della donna ne rivive l’incanto. La donna, la natura, il piacere del vino e della compagnia… tutto un mondo di affetti si ripropone attraverso il filtro del ricordo, quasi a compensare le inevitabile illusioni e le tragiche durezze. Poca cosa, si dirà, nella notte che ci attende, quando: “tutti/ viviamo in attesa/ che si allontani/ la muta di cani”, mentre paziente ci aspetta là fuori “l’ultimo predatore”. L’idillio non è possibile, si diceva. E come potrebbe esserlo quando ad Auschwitz il passo sprofonda “nel fango della storia”. O quando il sogno dei migranti si muta ne “i corpi freddi/ che accompagnano inerti/ le onde”. E anche qui il poeta raggiunge il massimo dell’intensità facendo nude le parole. E’ un procedimento stilistico si diceva, ma a questo punto, nell’inevitabile aprirsi di un orizzonte terribilmente inquieto, mi pare lecito aggiungere che si tratta anche di una scelta morale. Immagini, pensieri e stati d’animo si raccolgono idealmente in una poesia che si trova al centro dell’opera, quasi a caso, forse a reggere le fila che lì giungono e da lì si dipartono, ma non certo a caso è proprio quella. che dà il titolo all’insieme dei versi: “ Qualunque dio tu sia”. Così accorata, così sincera, da essere al tempo stesso imprecazione e preghiera, con quel vocabolo “prenditi”, ripetuto come i grani di un rosario, quasi a ripercorrere “le notti di luce/ sul mare”, ma anche “il grido spezzato/ che invano sale/ in un cielo di bombe“. Il bene e il male, non nella loro astrazione giuridica o teologica, ma nel loro concreto darsi nella vita dell’uomo, accompagnati da una domanda che Vanni non formula, ma che per essere taciuta suona ancora più forte: “Perché?”. Più che un’attesa di risposta quella domanda è uno sguardo. Si spiega così il “qualunque” riferito a una trascendenza incompresa e forse incomprensibile, che sembra esprimere l’aspetto confuso della creazione e soprattutto un rapporto mancato con l’uomo. Eppure nella mascheratura, nel “qualunque” che sembra suonare come uno spregiativo si rivela un “tu” più confidenziale, troppo poco per definirlo una speranza ma abbastanza per aprire una relazione. Ed è superfluo forse notare che su quel limite così vago, quel “tu” invocato, temuto, negato e affermato, si gioca per tutti il senso della vita. E per chi l’ha nel cuore il dono della poesia. Grazie Vanni.

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